non-fiction
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Le strutture della narrativa ipertestuale
Augmented Classrooms: A Generator Of Augmented Reality Environments For Learning
Total Theatre and the Transformative Potential of Augmented Total Theatre In Arts, Culture, and Education
The Shaping of Hypertextual Narrative
fiction
Tracce
«Voglio correre da sola» aveva detto. A restare sola con i suoi pensieri. Correndo si era allontanata diventando piccola, sempre più piccola. Quando già era una creatura minuscola sullo sfondo del mare si era girata verso di me e aveva agitato in aria un braccio, a salutare.
Ho aspettato che tornasse. Tra me e lei c'era solo la fitta catena di impronte lasciate dai suoi piedi sulla sabbia. Un confuso sovrapporsi di segni.
Dopo entriamo in casa. Subito Serena scivola dentro e si getta sul divano. È stanca. Anche io sono stanco. Dalla bottiglia di whisky mi verso un buon bicchiere. Restiamo in silenzio. Nel silenzio ci guardiamo attenti. Prima o poi, uno dei due deciderà di interrompere l'intreccio degli sguardi.
Le indico la porta del bagno con il bicchiere in mano. «Va’ a farti una doccia» le dico.
«Perché la doccia?» chiede.
Le sorrido. La rivedo camminare a piedi nudi sulla sabbia, lasciare segni. «È da un po' che ci penso» le dico. «Voglio farti delle foto. Foto di te bagnata. Come l'acqua, il mare...»
«Che c'entra il mare?»
«Beh, non è il mare. Non solo quello... Sei tu. Vorrei vederti bagnata. Te lo spiego dopo. Adesso fatti la doccia...»
Le sue labbra sono umide di saliva, i capelli le incorniciano gli occhi con riflessi biondi. Serena è sorpresa. Non è questo il mio modo abituale di parlarle. Si attende che io aggiunga parole, che le spieghi, ma non lo faccio. Non voglio.
Dalla strada salgono fastidiosi rumori di traffico: clacson, motori, il ronzare del rientro serale, una colonna sonora che si insinua tra i nostri sguardi.
Non dico una parola.
«OK» dice a un certo punto. E si tira su dal divano con gesto elastico e inizia a spogliarsi mentre gli specchi nella stanza moltiplicano i movimenti delle sue mani che slacciano la zip della gonna. Presto è nuda.
Dopo sento l'acqua scrosciare nella vasca, e passano i minuti e infine Serena è di nuovo sulla porta. «Va bene così?» chiede mostrandomi la sua testa bagnata, il suo corpo bagnato. L'acqua cade dai capelli a terra. Viene avanti, nuda e bagnata. Coperta di gocce sembra un pupazzo di gomma lucida che si sta sciogliendo. Senza aspettare una mia risposta si stende sul divano. Camminando deposita sul tappeto piccole impronte scure che subito si allargano e perdono definizione.
«E allora?» domanda.
Le rispondo con un gesto: mi muovo verso lo studio, dallo studio torno con la macchina fotografica in mano. Serena è in attesa di non sa che cosa: bagnata e splendente, stranamente sottomessa. Serena ha la testa piegata di lato, i capelli le cadono su una spalla come un intreccio di funi. Quando mi avvicino a lei e la tocco e la tiro e la spingo lei mi permette di modellarla quasi fosse una creatura senza ossa.
Serena si sposta, interrompe le mie azioni. «E allora?» domanda ancora. «Cos'è che stai facendo? Cosa c'entra questo col mare?»
«Fammi scattare qualche foto» le dico. Non è una spiegazione. Però sembra bastarle, per ora. Così mi permette di avvicinarmi a lei. Così inizio a scoprirla attraverso l'occhio della mia macchina fotografica. Attraverso la lente vedo chilometri di pelle liscia, le sue gambe affusolate, la sua peluria, i suoi pori sono gigantesche geometrie incise. Serena è un territorio di grandi valli di pelle e di pianure e di alberi e di vegetazioni. Se potessi delicatamente rimuovere la sua pelle e stenderla sul pavimento potrei fotografare l'immenso deserto che la riveste.
Scatto dopo scatto la scopro come non l'ho mai vista prima: le pieghe della sua pelle sono canyon, i capelli si trasformano in lunghi arbusti lucenti. Scopro l'esistenza di rughe sottili, impercettibili, lievi come fantasmi. Poi mi infilo con la lente dentro la sua bocca. La sua lingua è splendente di saliva, i suoi denti grandi come pietre. Più in alto, nei cristalli liquidi dei suoi occhi, vedo chiara l'immagine riflessa del mio occhio meccanico puntato su di lei. Un neo sotto al suo seno destro è come un lago scuro che si avvicina a me e poi si ritrae da me al ritmo lento del suo respiro. È come se fossi in volo su di lei.
Scendo ancora sul suo corpo, raggiungo le sue dita, le unghie rotonde. I piedi. Ritorno a lei più in alto: un ginocchio, l'ombelico, il ventre, i seni ancora, ancora il collo, il mento, il naso, le sopracciglia, la fronte.
In spiaggia, quando correva sulla sabbia, Serena era un minuscolo essere lontano. Ora è una creatura immensa che riempie il mio sguardo; con la macchina fotografica posso solo interpretarla a piccoli pezzi, frammento dopo frammento.
Finisco il rullino e lo tiro fuori dalla macchina fotografica e lo trattengo in mano come un oggetto prezioso. E lo è, in fondo: lì dentro, fissata nella pellicola, c'è una Serena nuova per me, che non conosco ancora bene, che non ho mai conosciuto prima.
Verso ancora un goccio di whisky nel bicchiere. Le chiedo se ne vuole anche lei. Annuisce. So che è in attesa di parole; so che ora non posso negargliele.
«Tu sei qui che lanci dei segni» le dico, «segni che io cerco di cogliere.»
Le indico le macchie bagnante che ha lasciato coi suoi piedi sul tappeto; ora sono macchie nere, allungate e deformi.
«È come prima, quando ti ho visto camminare in spiaggia. Lasci segni. Tracce destinate a svanire; evaporano, si dissolvono...»
Ancora non trovo le giuste parole. Per prendere tempo le passo il bicchiere con il whisky. Tento un'altra prospettiva: «I segni che ti lasci attorno spesso si perdono, si confondono. Mi confondono. Se io sono con te i segni che diffondi cambiano prima di raggiungermi; altre volte invece svaniscono silenziosamente, sopraffatti dalla miriade di nuovi segni che tu mi offri in ogni istante. Segni che uccidono segni. Cos'è che arriva a me di quei segni?
Immagini di te che lottano per il sopravvento. Quale immagine riuscirà a conquistare i miei occhi, la mia memoria?»
Un altro sorso di whisky, la gola mi brucia, Serena mi osserva incuriosita restando immobile sul divano, con la testa piegata all'indietro.
«Ti ho sempre fotografata, in un certo senso» le dico. «Da quando ti conosco. Cogliendo la tua pelle, i tuoi colori, sfiorando il tuo corpo. Toccandoti comprendo l'armonia del tuo corpo; ti conosco annusandoti, scoprendo il tuo calore, le tue profondità, i tuoi liquidi, le increspature delle tue labbra, o una luce riflessa negli occhi. Lo faccio quando sono con te. Costantemente. Ma costantemente perdo quanto ho appena conquistato. La memoria è labile. Tradisce. Tante volte ho provato ad imprimere nella memoria quei frammenti di te che tu ogni volta mi regali. Ma non è possibile. Non potrò mai. Il tuo corpo è vivo, cambia ogni giorno senza che io sia capace di accorgermene.»
«La tua immagine di ieri e quella di oggi si sovrappongono; le differenze si mescolano, i particolari perdono consistenza. Di ciò che tu sei e fai e dici io posso solo avere memorie incerte qui, nella mia testa. Memorie di momenti o giorni passati assieme, di parole che ci siamo detti. Di gesti...»
«Però tutto svanisce inesorabilmente. Un mese, un anno e resteranno solo idee sbiadite, brandelli consumati di parole, scheletri sui quali di volta in volta io costruirò le parti di cui ho bisogno, quelle parti di te che amo o odio, quelle che conosco meglio, quelle che di te amo ricordare. Di te costruirò un inganno che crederò vero.»
Tu sei quella persona che ho visto oggi camminare sulla sabbia. Ma cambierai presto nel mio ricordo, diventerai una figura vaga, un corpo di donna che avrà la tua faccia, più simile al volto che avrò davanti nel mio futuro che non a quello vivo e vero che oggi ha generato il ricordo. Il mare in cui correvi non sarà quel mare di oggi, ma un mare costruito dal mio cervello mescolando quel mare con tutti gli altri mari che ho visto e vedrò. E lo stesso sarà per la sabbia. E per il cielo. E per il vento. Lo stesso sarà con te. Ricorderò una donna inventata che corre su una spiaggia inventata al suono di un mare inventato sotto un cielo chiaro che è la somma di tutti i cieli luminosi che ho visto, che vedrò.
Oggi, fotografandoti, ho conquistato una visione nuova del tuo corpo, di te. E così voglio dare forza a un paradosso: provo a conservarti immutata pur sapendo bene di non poterlo fare. Fotografandoti ti colgo adesso per quello che adesso sei. Non i tuoi pensieri, l'umore, il suono del tuo cuore, certo. Ma un'immagine almeno, questo sì. Un'immagine che sei tu. O almeno una parte di te. E così riesco a mantenere immobile nel tempo questa immagine di te che tu ora mi regali. La memoria cercherà di ingannarmi. Domani ti ricorderò diversa da quello che ora sei. Ma queste fotografie riusciranno ancora a raccontarmi di te quel che oggi ho visto. Quello che sei oggi, adesso. Serena bagnata, Serena sorridente, Serena pianeta vicino e lontanissimo, Serena insondabile, Serena arrendevole, un teatro per la rappresentazione di un inganno.
Questo è un regalo che io faccio al mio io futuro. E un regalo che faccio a te, lanciando in una quasi-immortalità una piccola parte di te compressa in pochi metri di pellicola.